Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  domenica 28 agosto 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Antonio De Viti De Marco, uomo civile (1)

di Ernesto Rossi

Da una lettera di Ernesto Rossi a Gaetano Salvemini del 13 settembre 1948:

“Carissimo, comincio questa lettera oggi, 13 sett., perché temo di non aver domani il tempo per scriverti, e desidero mandarti il mio discorso su De Viti De Marco appena sarà pubblicato su ‘L’Italia Socialista’. Il mio discorso ha scandalizzato i ‘benpensanti del cerimoniale’, i quali temono sempre che il Presidente della Repubblica si comprometta se manifesta il suo consenso a qualsiasi indirizzo politico. Mentre parlavo davanti a Einaudi, Gronchi, Lombardo, Petrilli, Molé, ecc. ecc. mi sembrava di essere un cane maleducato in un salotto pieno di tavolini con sopra cristallerie e bibelots di tutti i generi. Il segretario di Einaudi aveva una faccia scura e con fatica riusciva a contenersi. Einaudi invece sorrideva approvando e diverse volte ha applaudito. Nella sala della Fiera c’erano tutte le autorità, e un seicento persone, fra le quali i nostri amici di Molfetta, di Bitonto (anche tua sorella), di Brindisi, ecc.; diversi temevano che Einaudi ad un certo punto se ne sarebbe andato. Invece, quando, dopo un’ora, ho finito di parlare, Einaudi è venuto a congratularsi vivamente con me ed ha detto forte, in modo che tutti sentissero, che desiderava veder pubblicato integralmente il discorso su qualche rivista diffusa in tutta Italia. Dopo è venuto Gronchi a chiedermi il testo per utilizzarlo nella sua rivista (il periodico “Politica sociale”, diretto da Giovanni Gronchi e Achille Grandi, tra il 1946 e il 1953; ndr.). I più soddisfatti sembravano proprio quelli che avrebbero dovuto essere più risentiti. I giovani erano entusiasti. Mi hanno fatto una claque come a un ‘Gigione’ dei più rinomati. C’era anche la figlia di De Viti De Marco (sposata a Pecorella), e Luzzatto (venuto apposta da Venezia), che sono stati soddisfattissimi…”.


Rossi, come del resto Salvemini, era molto legato ad Antonio De Viti De Marco. Ne fa per esempio fede una lettera, anche questa a Salvemini, del 12 febbraio 1945:

Non so se hai saputo che De Viti De Marco è morto…Il giorno dopo l’uscita dal carcere andai a trovarlo. Mi trattenni con lui pochi minuti. Povero vecchio, come si commosse a rivedermi. Era a letto, mezzo accidentato. Tornai poi per due giorni a Roma e andai a mangiare alla sera e a dormire a casa sua. Mi trovai allora anche con Canotti Bianco, estremamente conservatore, nazionalista, filomonarchico. La mattina dopo De Viti volle alzarsi e venne a sedere su una poltrona, per parlarmi mentre facevo colazione. Mi fece grande pena. Non era più un uomo. Aveva perso quasi completamente la memoria, capiva poco e non riusciva quasi più a parlare”.

In quella splendida raccolta di lettere che è “L’Elogio della galera”, che benissimo può figurare con quelle di Luigi Settembrini e svetta rispetto alle più note di Antonio Gramsci, e che Rossi scrisse tra il 1930 e il 1943, detenuto nelle carceri fasciste, se ne legge una, inviata alla moglie Ada dal reclusorio di Piacenza il 12 febbraio 1932: “…Quando si stima una persona, come io stimo De Viti De Marco, si prova sempre una grande soddisfazione nel veder confermati dai fatti la ragione della propria valutazione. Dal De Viti De Marco, maestro di scienza delle finanze, ho appreso tante cose che posso dirmi suo discepolo, ma dal De Viti De Marco uomo politico, ho appreso ancora di più, e credo di esser sempre rimasto sulla sua strada, che è quella tracciata dal Cattaneo…”.

Faceva parte, De Viti De Marco di un’Italia fatta di persone come Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Umberto Ceva, Carlo e Nello Rosselli, Alberto Tarchiani, Luigi Einaudi, Eugenio Colorni, Piero Calamandrei, Altiero Spinelli…Persone, diceva Rossi che seguivano “virtude e conoscenza”, spesso sparuta minoranza e stranieri in patria, che però erano il sale della terra: “Quale significato avrebbe avuto la mia vita, e come potrei avere ancora fiducia negli uomini se non li avessi, in un certo momento, incontrati sulla stessa mia strada?”.

Leggendo la commemorazione di De Viti De Marco fatta da Rossi si comprende il senso di questa affermazione, perché meritasse tanta amorevole considerazione; e anche perché oggi è letteralmente, un “sepolto” e “dimenticato”. (Gu.Ve.)


Notizia biografica

Il marchese Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858 morì a Roma il 1 dicembre 1943. Nel 1883 fu chiamato all’università di Camerino e poi a Macerata e a Pavia. Dal 1887 insegnò scienze delle finanze all’università di Roma. Dal 1890 al 1913 fu, con Pontaleoni, condirettore del “Giornale degli economisti” e poi, con Salvemini, condirettore del settimanale “l’Unità” dall’8 dicembre 1916 al 31 dicembre 1918. Eletto deputato nel 1900 fu riconfermato nel mandato fino al 1921. Nel 1931 lasciò l’insegnamento per non prestare il giuramento fascista, dando le dimissioni con la seguente lettera, indirizzata al prof. De Francisci, rettore magnifico dell’università di Roma:

“Ill.mo Professore e Caro Collega,

il giuramento di cui Ella ha avuta la cortesia di farmi leggere la formula, mi porrebbe in contraddizione con i miei precedenti politici, e con la dottrina che ho sempre professata. Né più potrei riprendere a continuare il mio insegnamento teorico della Finanza e dell’Economia senza ricorrere alle riserve mentali di uso comune, che a me ripugnano. Sono, per ciò, venuto nella decisione – quanto mai per me penosa – di chiedere il collocamento a riposo. Mi permetto di accludere la domanda, grato se vorrà trasmetterla a S.E. il Ministro.


Roma 5 novembre 1931”.

Fra le pubblicazioni scientifiche vanno specialmente ricordate “Monete e prezzi” (Città di Castello, 1885); “Saggi di economia e di finanza” (Città di Castello, 1898); “Il carattere teorico dell’economia finanziaria” (Roma, 1888); “La funzione della banca” (in Rendiconto dei Lincei, 1898, ristampato a Torino nel 1934); “Principi di economia finanziaria” (Torino, 1934, edito anche in inglese e in tedesco).

I suoi principali scritti politici sono stati raccolti nel volume: “Un trentennio di lotte politiche (1894-1929)”.


Discorso tenuto da Ernesto Rossi alla Fiera del Levante il 12 settembre 1948, alla presenza del Presidente della Repubblica, e pubblicato a cura dell’amministrazione della provincia di Bari.


Ringrazio gli amici pugliesi che hanno voluto affidarmi il compito di questa commemorazione. Ho accettata la loro offerta perché avevo un debito di riconoscenza che desideravo in qualche modo assolvere verso De Viti de Marco e perché mi è sembrata fosse questa una buona occasione per leggere pubblicamente alcune delle pagine di maggiore attualità fra quelle che egli ci ha lasciate.


Ho un primo debito di gratitudine verso De Viti De Marco, prima di tutto per ciò che mi ha insegnato con i suoi scritti di economia finanziaria e di politica, e poi per la cordialità con la quale mi ha sempre accolto in casa sua e per l’interessamento che ha dimostrato verso di me durante il periodo in cui ero in carcere.


Conobbi personalmente De Viti De Marco nel 1925, per mezzo di Salvemini, che da molti anni gli era intimo amico, e subito fui affascinato dalla sua bontà, dalla sua intelligenza, e dal suo tratto da gran signore. Queste ultime parole possono oggi sembrare un elogio fuori posto a coloro che ritengono l’aggettivo “democratico” sinonimo di “scamiciato”, o di “sbracato”. Basterebbe l’esempio di De Viti De Marco per dimostrare quanto questa identificazione sia errata. Nessuno più di lui era preoccupato degli interessi generali del popolo; nessuno più di lui sentiva l’urgenza di elevare il tenore di vita e la educazione degli ultimi strati sociali per portarli ad una sempre più consapevole e libera partecipazione alla vita dello Stato; ma nella sua figura, in tutte le sue parole, nel senso di misura che metteva nei suoi gesti e in tutto quello che faceva, De Viti De Marco era veramente un gran signore; naturalmente otteneva il rispetto di tutti coloro che l’avvicinavano perché si capiva che per primo egli rispettava sé stesso.


Nel 1925, quando lo conobbi, stava rivedendo le sue dispense universitarie, di cui solo nel 1923, dopo 43 anni di insegnamento, aveva consentito la stampa, in un ristrettissimo numero di copie, per i suoi studenti. Nella prefazione a queste dispense, pubblicate nel 1923, dopo un richiamo ai suoi precedenti didattici De Viti De Marco scriveva: “Intendo ringraziare alcuni dei miei colleghi che mi hanno fatto l’onore insigne di tener conto, nei loro pregevoli scritti, delle mie lezioni litografate, quantunque abbiano dimenticato di ricordarne l’esistenza”.


Mi pare ancora di vedere il lampo di benevola arguzia che illuminava il suo sguardo dietro le lenti.


Quel che mi fece più impressione, discutendo la prima volta con De Viti De Marco le idee che egli doveva poi sviluppare nel suo grande trattato, fu la sua modestia, la sua capacità di prendere in considerazione anche le critiche di un “pivellino”, di un giovane sconosciuto qual eio ero, per trarre incitamento ad approfondire il proprio pensiero, per continuare nell’appassionante ricerca della verità.


E solo questo, non titoli accademici ed il numero delle opere stampate, distingue, secondo me, l’intellettuale dal “pennarulo”.


Il De Viti De Marco amava più discutere che scrivere. Direi quasi che provasse una certa ripugnanza a scrivere perché nonostante la linearità del suo pensiero, che collega le ultime pagine alle prime quasi fossero state scritte contemporaneamente, riteneva di non essere sufficientemente chiaro: gli sembrava di non aver mai raggiunta la forma definitiva di espressione.


Se – come è stato detto e come io credo – per uno scrittore, chiarezza equivale ad onestà, basta leggere gli scritti di De Viti De Marco per dare un giudizio sulle sue qualità morali.


Come il Ferrara, come il Pareto, come il Pantaleoni – che con lui hanno formato il piccolo gruppo di economisti che hanno veramente onorato la scienza italiana, a cavallo fra i due secoli – il De Viti De Marco aveva in uggia tutte le teorie astratte, nebulose, ermetiche che direttamente o indirettamente derivano dalla filosofia hegeliana. Per poter ragionare, anche lui riteneva che i concetti dovessero essere nettamente definiti: le categorie da utilizzare come strumenti di lavoro dovevano essere scatole con pareti ben squadrate, che consentissero di capire quel che c’era dentro e quel che ne rimaneva fuori.


“Sarà un bravo giovane – mi disse un giorno parlandomi di Piero Gobetti – ma gli ho rimandata la sua “Rivoluzione Liberale” perché scrive in un modo che non riesco proprio a capire quello che vuol dire. Io non sono un filosofo”.


Lunghe discussioni di economia, e specialmente di politica, ebbi poi con De Viti De Marco nelle due settimane che fui suo ospite, nel 1928, per raccogliere gli scritti che vennero pubblicati nel volume “Un trentennio di lotte politiche”. Di quelle giornate conservo ancor vivo il ricordo per il sereno godimento intellettuale che mi dette conoscere meglio l’umanità del De Viti De Marco.


Egli era più un artista che uno scienziato. Aveva scarsissima memoria e quindi doveva continuamente riscoprire le stesse verità a cui era già arrivato per suo conto. Bastava dare un’occhiata alla sua biblioteca per capire che le sue opere non erano il frutto di un lavoro ordinato, sistematico. Non aveva alcun aiuto di schedari con riferimenti ai diversi autori. In mezzo alla stanza della biblioteca c’era un lunghissimo tavolo con una massa di libri e di fogli in gran confusione. Quando l’estate andava in campagna copriva il tavolo così com’era con un lenzuolo, ed al suo ritorno non permetteva a nessuno di rimetterlo in ordine. Procedeva nel suo lavoro per rapide intuizioni più che per caute deduzioni logiche.


Amava le cose belle. La sua bella villa di Roma se l’era costruita aggiungendo e rifacendo, secondo i suoi piani, su un vecchio edificio rustico, e se l’era ammobiliata secondo i suoi gusti.


Ma la sua maggior passione era l’agricoltura. Quando parlava dei miglioramenti introdotti nei fondi, o della ricostruzione che per primo nella provincia aveva fatta dei vigneti filosserati, o della piccola invenzione che gli aveva consentito di raffreddare automaticamente il mosto durante la vinificazione, si entusiasmava più che per qualsiasi altro argomento.


In carcere ebbi poi ancora più volte notizie di De Viti De Marco dai miei familiari che, arrivando a Roma andavano spesso da lui, trovando sempre la più cordiale accoglienza, nonostante le seccature che si tiravano addosso coloro che mantenevano rapporti con i detenuti politici. E l’atto di coraggio civico che non dimenticherò mai, e per il quale specialmente ho verso di lui il debito di gratitudine a cui ho accennato in principio, furono le poche righe che egli premise, nel giugno del 1931, alla edizione tedesca del suo trattato: ringraziandomi, con le parole ch’egli sapeva mi avrebbero potuto fare più piacere, per la revisione critica che io avevo fatto del trattato, il De Viti De Marco, non solo scrisse, per ben individuarmi, il mio nome e cognome e il riferimento all’Istituto tecnico di Bergamo in cui avevo insegnato, ma precisò anche: “recentemente condannato dal Tribunale speciale a 20 anni di carcere come uno dei capi dell’organizzazione politica Giustizia e Libertà”. Fu questa una manifestazione di solidarietà verso chi era in carcere e un atto di accusa contro il fascismo, che forse nessun altro intellettuale si sarebbe allora azzardato di fare pubblicamente in Italia.


Lo stesso giorno in cui, il 31 luglio del 1943, uscii da Regina Coeli, telefonai per domandare notizie della sua salute. Sapevo che era a letto gravemente ammalato da molti mesi. I suoi familiari mi dissero che desiderava vedermi e mi scongiurarono di non lasciare Roma senza essere stato prima a trovarlo. Nonostante avessi un’ansia vivissima di tornare subito dai miei, mi fermai a cena e a dormire a casa sua. Lo trovai che quasi non riusciva a parlare. Ma la sua testa conservava ancora la nobiltà dei vegliardi disegnati da Michelangelo. Mi abbracciò commosso. La mattina successiva mentre, prima di partire, prestissimo, stavo facendo colazione, lo vidi entrare sostenuto dalla donna di servizio. Dal piano di sopra aveva voluto in tutti i modi farsi accompagnare nella stanza da pranzo per stare ancora qualche minuto con me. Mi tenne a lungo la sua mano pesante sulla mia e pareva volesse dirmi tante cose. Ma non disse parola.


Poi non l’ho rivisto mai più. Sono passai ormai cinque anni, ma quell’addio mi pare di ieri.

(1. segue)